FRESCO DI STAMPA. Libri da leggere

Simona Nuvolari, Una lotta impari, Milano, Rizzoli, 2022, pp. 504

Chi pensasse di leggere un romanzo facile, date le dimensioni che gli editori riservano soltanto a best seller sicuri, di autori molto affermati e noti, si sbaglierebbe di grosso. Le due citazioni poste in epigrafe, da Kafka e Mary Douglas, potrebbero certo mettere sull’avviso, ma potrebbero celare, da parte della scrittrice, anche il tentativo di attribuirsi una patente di rispettabilità e alta cultura, come talvolta fanno anche gli autori più popolari.
Dopo poche pagine chi legge si rende però conto che è proprio un romanzo denso e importante, non solo per le dimensioni, ma poiché si viene scaraventati in una narrazione ossessiva ove è posto al centro l’Io della protagonista, Marta, quella che si rivelerà afflitta un disturbo ossessivo compulsivo (DOC). E a quella ossessione, divenuta la vera protagonista, con assoluta noncuranza, apparentemente, delle regole del gioco, si chiede al Lettore di partecipare, di calarvisi dentro, divenendo egli stesso attore.
Ci si trova così intrappolati in una narrazione meticolosa fino al più minuto particolare, ossessiva appunto: l’ossessione della protagonista, compulsivamente immersa in una frenetica attività di pulizia di ogni parte del proprio corpo, di ogni oggetto sospettato di essere stato toccato dallo Sporco, diviene la nostra ossessione: vorremmo sottrarci ad una lettura così ferocemente penetrante, ma non possiamo fare a meno, malgrado tutto, di proseguire, anche perché la narrazione è sorretta da una scrittura efficacissima, piana eppure capace di entrare nelle pieghe più risposte del malessere. Siamo prigionieri dei lunghissimi eppure infinitesimi tratti temporali in cui viene scomposto il tempo di lettura, obbligati a chiederci allo stesso tempo come l’autrice cercherà di ricomporli e come potremo ricomporli noi stessi. Da questo punto di vista Una lotta impari ha tutte le caratteristiche del giallo (come del resto denuncia lo stesso titolo), il genere in cui il lettore si chiede continuativamente come andrà a finire.
Come nelle Metamorfosi di Kafka, il lettore si rende assolutamente conto dell’assurdità della narrazione e dell’irrazionalità e irrealtà apparente della fabula ma non riesce ad evadere, a recuperare il rapporto con la realtà,  e ciò proprio perché, malgrado la sua assurdità apparente (contraria apparentemente all’esperienza “normale”), il narrato è molto più reale di qualsiasi giallo: il Lettore diviene egli stesso parte del narrato, con il quale interagisce senza quasi avvedersene, come in ogni grande racconto. La fictio lo ha catturato e vorrebbe distaccarsene, rompendo il patto fra Autore e Lettore, negando ogni verosimiglianza al narrato poiché apparentemente troppo stridente con se stesso e la propria esperienza. Bene: proprio in quel momento qualcosa gli dice che deve andare avanti poiché quel narrato parla in qualche modo ancora oscuro anche di lui, di noi (come si vedrà più avanti). Quel patto necessario fra Autore e Lettore viene così continuamente messo in discussione e rinegoziato e rispettato, fino all’impossibilità di interrompere la lettura se non con la certezza di doverla riprendere. Una mise en abyme così assoluta del Soggetto e dell’Oggetto del romanzo da potersi permettere di non essere mai dichiarata, come scaturisse dall’Oggetto stesso e dalla sua impossibile, estraniante, presa sul lettore. Ossessiva, appunto. Ed è fatto non proprio di quotidiana amministrazione letteraria una tale capacità di presa.
Tutta la prima parte del romanzo è quindi la rappresentazione, a volte proposta dal Narratore onnisciente, a volte dal Personaggio, Marta, di tutte le infinite, davvero infinite e irrealistiche, ma realissime, precauzioni che Marta prende in ogni singolo, minimo momento della sua vita, dal primo istante della giornata, al lavoro e alla sera. Può contare sempre sul sostanziale supporto di un marito spettatore partecipe ma quasi specchio riflettente di se stessa, nella sua apparente assenza emotiva, arrivando però a coinvolgere anche i figli (e lo stesso marito, in realtà, scopriremo, coprotagonista di un amore profondo) in scene cariche di profonda drammaticità, nelle quali chiede di nuovo il nostro giudizio, quella comprensione e partecipazione emotiva che le negano il figlio ma innanzitutto la figlia, fino a situazioni estreme.  Leggiamo uno degli episodi del romanzo più carichi di tensione e più rivolti al Lettore: Marta ha sottratto alla figlia un reggiseno a questa carissimo per buttarlo, sospettando una supposta -e peraltro improbabile- contaminazione da parte di un qualche possibile scarafaggio. Dopo una ferocissima contesa verbale e quasi fisica (se fosse possibile quel contatto fisico che la malattia le nega) Marta ottiene il reggiseno al prezzo di una autoumiliazione totale: «Sono completamente sola al mondo: “È caduto là sotto … scarafaggi” sto singhiozzando ciecamente. “Non vuole darmelo … non posso, non posso lasciaglielo» invoco con uno strazio delle viscere in cui metto tutta me stessa, se non riesco a comunicare la mia disperazione sono perduta. “Non può calpestarmi così, cosa le ho fatto?”. Mi disprezzino pure, devono disprezzarmi, che si levino al più presto davanti agli occhi questo spettacolo penoso, guai se dovessero schierarsi con lei, devono sentire che ormai non torno indietro, che i vicini chiameranno la polizia».  […] «E adesso mi dai il pigiama» continuo ancora affannata “Ci hai passato la mano sopra”, inutile che neghi” penso [..] «”Brutta troia” pronuncia marcatamente» la figlia, dopo averle dato l’indumento. «Non la guardo nemmeno e aspetto di incassare il pigiama, indifferente a tutto il resto […] svuotata d’ogni ragion d’essere, mi lascio invadere da una calma esausta».  Fine della prima parte (O insensate cure, in citazione esplicita da Dante che in Paradiso xi, 1 deprecava il vano agitarsi dei mortali inconsapevoli, laddove Marta, pur nel delirio, appare sempre lucida).
La seconda (Va’ a capire perché) inizia in un’atmosfera idillica contrastiva colla conclusione della prima parte: in un bar in riva al mare, parlando con l’amico Felix, saltuario marito di una psicanalista e dunque suo confidente attendibile. È l’inizio di un lungo percorso alla ricerca di sé. Marta vedrà diagnosticata la propria patologia da  uno  psichiatra che le consiglierà il Prozac; lo prenderà e lo lascerà, proverà uno psicanalista, la terapia cognitiva, ripercorrerà – attraverso il recupero di antichi quaderni di appunti- tutta la propria infanzia più remota e l’adolescenza, con la paura allora già chiara di non poter resistere nella sua solitudine senza Dio. È la parte più lunga e intensa, solcata da continui feed back e da improvvisi e altrettanto continui richiami al presente: il senso di colpa, quello evocato nell’epigrafe del libro, da Kafka, è riconosciuto come uno dei fantasmi da esorcizzare («Nulla resta attaccato all’anima quanto un senso di colpa infondato perché -proprio perché non ha nessun fondamento- non c’è penitenza o riparazione che permetta di sbarazzarsene»).  
Chi è dunque Marta? Scout, studentessa del Tasso e frequentatrice del suo ambiente e dei suoi luoghi, lettrice di buoni giornali e di tanti buoni autori, interessata a tutti i grandi e piccoli problemi che hanno attraversato la generazione degli anni Sessanta e Settanta, esponente di quella “borghesia riflessiva” progressista che si muove in alcuni quartieri romani, attenta alle disuguaglianze e alle storture del mondo, tanto da costringerla a confrontarsi anche sul piano esterno con un profondo senso di colpa. Cattolica passata attraverso la crisi esistenziale tipica dell’adolescenza e della conquista di un’identità, scopre infine dopo una ricerca affannosa per libri e autoanalisi che «l’addio alla religione non ha risolto niente, la vecchia lotta contro la distrazione colpevole, poi contro il peccato è divenuta ben presto lotta affannosa contro la morte, e a nulla è valsa poi l’oasi di normalità -quasi dieci anni- faticosamente raggiunta e mantenuta.» Messa improvvisamente di fronte alla morte inaspettata di un’amica lontana, Loredana, Marta si pone in modo sempre più radicale il problema del senso della sua vita e dell’esistenza: «Niente, la cosa che più conta non è lasciarsi qualcosa dietro, che duri quando non ci sarai più: è vivere e morire facendo il più possibile quello che vuoi fare davvero […] Insomma non lasciarsi estraniare da sé. […] Allora l’unica è vivere sempre come se ogni giorno fosse l’ultimo. Impossibile». Meglio allora vivere come se ti avessero dato solo tre mesi ancora di salute «prima di pensare unicamente alla malattia. In questo modo le priorità si rivoluzionano […] Ci provò nei giorni successivi. Niente da fare. Era finto, non funzionava.»
Nella terza parte (Col tempo) Marta impercettibilmente inizia a uscire da se stessa: si proietta sulle ragioni storiche e antropologiche della propria anomalia (con Mary Douglas quale filo conduttore originario, ovvero l’altra presenza in epigrafe, con Kafka). Scopre di non essere sola nella sua nevrosi, confortata dalla contiguità di altri grandi personaggi, a cominciare proprio da Kafka e da Majakovskji, che girava sempre con un pezzo di sapone in tasca, anch’egli per lavarsi continuamente le mani. Marta scopre gli Altri e i rituali che da secoli sono stati messi in atto in tutte le società per separare il puro e l’impuro e scopre che tutto forse è relativo («Tutte le culture hanno i loro schemi e tutto ciò che non rientra in quegli schemi crea disagio e repulsione»), ma ogni cosa è soggetta al cambiamento, pur sussistendo sempre il rifiuto dell’anomalia da parte del corpo sociale.
Ciò che è anomalia in una parte del mondo, diviene però necessità in altre zone e continenti. Vivere in mezzo ai rifiuti, separandoli alla ricerca del rivendibile, vivere in mezzo ai liquami e all’aria fetida è inconcepibile per Marta e i suoi lettori, ma è la realtà presente che si incontra attraverso le letture, le fotografie e i media. Dove si incrociano allora rituali e nevrosi individuali, dov’è che i rituali e la nevrosi individuale (lavare continuamente tutto, lavare continuamente sé) rivelano angosce non solo individuali ma sociali?  Perché il senso di colpa per se stessi del mondo avanzato non riguarda anche le condizioni sociali dei paria e dei raccoglitori di rifiuti? Quando il senso di colpa può divenire consapevolezza di essere legato a doppio filo al senso di onnipotenza? Quando il senso di colpa può / deve divenire senso di responsabilità? Tutte domande lasciate inevitabilmente inevase, che il lettore di nuovo è invitato a fare sue, assumendo il punto di vista di Marta e quindi liberandola dalla solitudine e prospettando una speranza. Non è ovviamente un caso che la terza parte si concluda con i ragazzi raccoglitori di rifiuti, «che ostentano sicurezza, non si schifano di niente come se fossero invulnerabili» e con l’immagine per Marta più «stupefacente» di tutte: «dritta in cima a un cumulo di rifiuti innominabili, una ragazzina esile dispiega controluce un grande velo trasparente, che ha recuperato dall’inferno, quasi intatto».
Nell’Epilogo. Primi mesi del Covid, quasi magicamente, per l’irrompere improvviso di un evento imprevisto e imprevedibile, come era già stata la morte di Loredana, il quadro si ricompone e matura quell’apertura al mondo e alla società tentata nel tempo (Col tempo).  La pandemia capovolge ogni consuetudine del mondo avanzato e l’anomalia rappresentata da Marta, il disturbo ossessivo compulsivo, diviene necessità per tutti di comportamenti identici a quelli di Marta. Marta si pacifica progressivamente, entrando in sintonia con gli Altri: anzi sono gli Altri che ora finalmente possono capire ed entrare in sintonia con lei. Quel che rimane inevaso e lontano è invece proprio quel mondo ove la consuetudine con i rifiuti e lo sporco è ragione di vita e su cui Marta si era aperta all’Altro e con cui si conclude la ricerca di sé: un mondo Altro, tragicamente altro, «perché, a differenza di un sottile strato di privilegiati come Marta, non puoi mandare nessuno al posto tuo».
Fra le pagine passa dunque -quasi inavvertibile ma paradossalmente esplicita-  gran parte della storia e dei problemi della seconda metà del XX secolo, romano, italiano e poi globale (nella terza parte -ove il titolo, Col tempo, potremmo forse riferirlo non solo alla protagonista, ma al mondo- e nell’Epilogo). Se i Buddenbrook sono, nella visione di Mann, la tragica rappresentazione della fine della grande borghesia mercantile tedesca e dell’Europa (fino all’assunzione della centralità della malattia nella Montagna magica), Una lotta impari è, fatte ovviamente le debite proporzioni, la rappresentazione impietosa della disfatta e del dramma di quella borghesia culturale, progressista e umanitaria, che almeno da due generazioni, quasi un secolo ormai, non ha più trovato una rappresentanza culturale e politica, una ragione?,  e che nella nevrosi e nella sua pratica e cura ha cercato una pratica dell’esserci. Ma forse, neppure tanto analogicamente, è anche il problema posto di fronte a tutta la classe media del mondo occidentale. Forse è proprio questa consapevolezza critica, che ha indotto un grande editore come Rizzoli a rischiare, in tempi non facili per l’editoria, su un romanzo così difficile e peraltro così significativo.

Roberto Antonelli
28 maggio 2023


Alexandre Marc, Civilisation en sursis, Europe terre décisive, L’Europe dans le monde, Roma, Tab edizioni, 2021

A vent’anni dalla morte di Alexandre Marc (Odessa 1904-Vence 2000), studioso, filosofo e militante federalista europeo, un gruppo di ex allievi e amici ha preso l’iniziativa di ridare alle stampe le tre opere fondanti della sua vastissima produzione: Civilisation en sursis (1955), Europe terre décisive (1959) e L’Europe dans le monde (1965), pubblicazioni difficilmente reperibili nelle biblioteche.
Le analisi di Alexandre Marc sulla società contemporanea e sulle istituzioni dell’Unione europea che cominciavano a prendere forma, sono di una attualità straordinaria; questo a conferma delle sue non comuni capacità di intuito e di sistematizzazione culturale degli avvenimenti politici del secolo scorso. Non è un caso che Alexandre Marc abbia riconosciuto al federalismo globale un ruolo metodologico per la prevenzione e la regolamentazione dei conflitti, oltre che l’introduzione in Europa di nuove istituzioni quali il minimo sociale garantito e il servizio civile universale.

Maria Teresa Di Bella Ruta
17 luglio 2022


Patrizia Fassio, Ragnatele. Un caso per Natalia Solari, vicequestore, Damster edizioni, 2022.

Un’altra commissaria e un’altra vicequestore?
Sì (e bisognerebbe capire perché così tante…), ma giallo molto particolare e affascinante per varie ragioni. La prima e più importante è la complessità della protagonista, una specie di poliziotta riflessiva e dolorante, capace di rapporti molto aperti con i suoi collaboratori, ma anche autorevole e decisa, una donna che si affida al suo istinto ma ragiona incessantemente per connettere dettagli pratici e intuizioni. Ma soprattutto una donna che si porta dentro nodi irrisolti che ne attraversano la quotidianità e le tolgono ogni possibilità di una vita piena. Il testo è costruito con grande abilità per tenere insieme i livelli diversi della riflessione della protagonista, concentrata sul caso da risolvere ma continuamente preda dell’emergere di emozioni altre, rappresentate con grande sapienza linguistica e un dialogo fitto e avvolgente. Quando il mistero si scioglie e il caso (in realtà due casi) è risolto, ci chiediamo cosa avverrà dopo della protagonista:  un bel romanzo, giallo ma non solo….

Roberto Antonelli
31 maggio 2022

UN LIBRO RITROVATO

CLASSICI DA RILEGGERE

Andrea Camilleri, La rivoluzione della luna, Sellerio, 2013.

In un’epoca in cui la politica si muove a rilento e non riesce a concretizzare soluzioni efficaci, e in cui ripetutamente si suggerisce di dare più potere alle donne, questo libro meno conosciuto di Andrea Camilleri appare di grande attualità benché ambientato durante il Vice regno di Sicilia, in pieno XVII secolo. 
Il Viceré muore improvvisamente e, per testamento, lascia alla vedova, la bellissima donna Eleonora di Mora, il governo di un paese dove regnano soprusi e corruzione, a partire proprio dai membri del Sacro Regio Consiglio.
Nel giro di ventotto giorni – il tempo che impiega la luna per fare la sua rivoluzione intorno alla terra – la viceregina rimette molte cose a posto, cominciando con la sostituzione dei funzionari corrotti con altri perfettamente onesti.
La lotta tra bene e male sarà molto impegnativa, come una difficile partita a scacchi dove, a ogni perfida mossa, donna Eleonora risponde con meditati contraccolpi, senza mai perdere il controllo della situazione.
Pur trattandosi di una severa opera di denuncia, il libro è di piacevolissima lettura grazie all’incalzare di colpi di scena e all’umorismo che tocca il suo culmine nello spagnolo parlato da donna Eleonora, esilarante e improbabile quanto il siciliano di Camilleri.

Letizia Norci Cagiano de Azevedo
20 giugno 2022